Siamo in pieno Carnevale e parlandovi del Friuli vi dovrei raccontare di frìtole o frìtulis, cioè frittelle, e cròstui, crostoli, dolci storici appartenenti allo strato patrimoniale latino. Analizzando infatti la gastronomia come fosse una prospezione archeologica i crostoli, da crustula, cioè croste di pasta fritta, e le frìtole sono presenti sul territorio del Triveneto fin dai tempi della deduzione di Aquileia del 181 d.C.
Le frìtole di oggi però potrebbero essere definite un “dolce di ritorno”, dato che la ricetta attualmente in uso a base di lievito è diversa da quella dei globi romani del Liber de Agricolutura di Marco Porcio Catone del III secolo a.C.
La ricetta corrente, affinata poi in Oriente con le zelebia, ci è giunta da Venezia dove è arrivata tramite Giambonino da Cremona nella seconda metà del XIII secolo e da allora è rimasta pressoché invariata.
Preferisco però anticiparvi le tradizioni, retaggio di antiche feste propiziatorie per la fertilità dei campi e della famiglia, della Feria Quarta Cinerum, cioè del Mercoledì delle Ceneri che, secondo la tradizione imposta dal Concilio di Trento, segna l’inizio del periodo di “astensione dalle carni” e, per i friulani, della stagione della renga, l’aringa in friulano, secondo il detto popolare Pe Cinise si mangje la renghe “alle Ceneri si mangia l’aringa”.
Secondo la consuetudine, il ‘mangiar di magro’ prevedeva l’astensione non solo dai grassi e dai dolci ma anche dalle carni e, secondo una tradizione popolare, dalle carni degli animali presenti sull’arca di Noè. A questo proposito sia il ricettario della Suore Dimesse di Udine sia quello della contessa Giuseppina Perusini Antonini di Rocca Bernarda riportano un minestra Sòpe di spàrcs, cesarons, e croz, di vilie cioè una zuppa di vigilia a base di asparagi, piselli e rane: l’uso delle rane in un piatto di vigilia ci fa capire che non erano considerate carne, ma bensì pesce e quindi adatte al precetto di astinenza. Tra i piatti permessi, oltre ai bigoli in salsa di acciuga e cipolle fresche, tipici erano la minestra di “rûz fasùi”, ovvero di soli fagioli, che in altri periodi dell’anno era invece condita con il pestât (battuto di lardo, erbe aromatiche e sale), il bacalà e le sardelle col radicchio.
Riscontri dell’uso di aringhe si trovano già nei primi libri a stampa: le aringhe, raccontava Olao Magno (1555) all’inizio dell’autunno, sulle coste della Scandinavia meridionale, si prendono in tanta profusione da poter bastare, una volta salate e messe in barile, a cibare gran parte d’Europa. Si comprano a un prezzo piccolissimo, vista la quantità pescata.
Altrettanto abbondante era la pesca nei mari d’Inghilterra e Scozia, ma le aringhe settentrionali erano più apprezzate per il loro sapore. Bartolomeo Scappi scriveva nel 1570 che i pescatori delle Fiandre le mettevano in salamoia nei barili e le portavano in Italia, risalendo il fiume Reno. Dopo salate si fanno stare al fumo tanto che piglino il color dell’oro, le buone son lustre e tutte son piene d’uoua, o di latte, e le migliori si tengono essere quelle di latte, percioche hanno la schiena più grossa.
Le aringhe si usano sia quelle sotto sale, una volta conservate in barili di legno e oggi più difficili da trovare, sia quelle affumicate dal colore o dorato o argenteo.
Leggende tramandate parlano di tempi di grande povertà in Friuli dove la polenta veniva “condita” solo strusciando l’unica aringa affumicata appesa al centro della tavola per tutta la famiglia.
La tradizione vuole che l’aringa, prima di esser consumata, vada fatta reidratare per una notte nel latte. Le aringhe si mangiano o crude o cotte, ma è sempre necessario metterle a marinare per reidratarle. Posso qui ricordare la frittata (frataia ‘ta la renga) e la sevolada cu lis rènghis, la cipollata con le aringhe, una sorta di savôr servito caldo, realizzato facendo stufare lentamente in olio delle cipolle affettate con alla fine una spruzzata di aceto e messe a copertura a delle aringhe cotte in olio. La renghe o cospetòn, e questo termine genera confusione perché in friulano indica oltre che l’aringa maschio anche le sardelle sotto sale, viene anche cotta sotto la cenere, avvolta in carta, con olio, fettine di cipolla e pepe o semplicemente cotta alla griglia e messa sott’olio.
Nel Friuli di una volta c’era il rito di andare per osterie a mangiare renghe e rati: un abbinamento curioso e quasi dimenticato. Il rati, o ramolaccio, è un tubero dalla scorza nera e dal sapore intenso e piccante che, crudo grattugiato o cotto, ben si abbina con l’aringa affumicata. Il suo sapore ricorda quello del ravanello ma è molto più carico e piccante, tanto che per indicare una persona stizzosa, irosa e “ruvida” ci si riferisce in friulano a questo ortaggio: “jessi un rati”, che sarebbe come dire… “essere un ramolaccio”!
Nei periodi di vigilia e astinenza, nel Trivento accanto all’aringa si consuma anche lo stoccafisso, qui noto come bacalà. Questo alimento ci è giunto grazie al naufragio alle isole Lofoten del mercante veneziano Pietro Querini che nel 1431 trasportava vino malvasia da Candia (Creta) alle Fiandre. Querini scoprì il merluzzo seccato all’aria per mesi, fino a diventare quasi un pezzo di legno, tanto che gente del posto lo chiamava Stockfiss, cioè pesce bastone. Nel triveneto lo chiamiamo bacalà, con una “c”, e ciò crea confusione ai foresti perché il baccalà con due “c”, è invece in italiano il merluzzo sotto sale.
Nel Cinquecento il Concilio di Trento fu indetto sull’onda della Controriforma Luterana anche con lo scopo di imporre alla chiesa cattolica romana usi e comportamenti più frugali. La nuova morale ecclesiale impose di stigmatizzare la cucina grassa del Medioevo predicando l’astinenza dalle carni il venerdì e durante la Quaresima. Le aringhe e il merluzzo seccato o salato erano uno dei principali alimenti commercializzati dell’epoca: erano cibi poco costosi, proteici e trasportabili e che permettevano ai fedeli di salvare l’anima riempiendo lo stomaco. Un prete svedese, Olaus Magnus (Olao Magno), fece uso di tutta la sua influenza per convincere i Padri Conciliari a pronunciarsi a favore dello stoccafisso, indicandolo come cibo adatto a sostituire le carni, considerate cibo lussurioso e grasso che induceva al peccato. E ci riuscì! Per la cronaca Olaus Magnus era il nome latinizzato di Olaf Månson, arcivescovo di Uppsala e primate di Svezia, fratello del precedente Arcivescovo di Upsala Johan Månson (Giovanni Magno). Si racconta che la famiglia Månson commerciasse in aringhe e stoccafissi da secoli…
In cucina da un pesce legnoso e stopposo come lo stoccafisso, battuto, bagnato, cotto e aggiustato con infinita pazienza, si riescono a realizzare piatti stupendi. L’esempio di questo ingegno è il curioso piatto di bacalà alla cappuccina, un umido di stoccafisso molto simile nella preparazione al bacalà alla vicentina a cui però di uniscono pinoli e sapori “dolci” come l’uva passa e la cannella e ciò richiama chiaramente il periodo rinascimentale quando non vi era una netta distinzione tra dolce e salato.
Il bacalà mantecato è forse l’apoteosi delle delicatezza, partendo da un alimento particolare e un tempo molto povero mentre oggi ricercato e costoso.
Per realizzarlo vi consiglio di acquistare dello stoccafisso già battuto e ammollato perché fare in casa queste operazioni è proibitivo, pena di appestare il vostro appartamento di un odore persistente e resistente per molti giorni.
La ricetta è semplicissima, alla portata di tutti, ma la perfetta riuscita dipende molto dalla qualità dello stoccafisso, il migliore è il cosiddetto tipo “Ragno” (termine che probabilmente deriva dal nome di uno storico importatore che trattava solo la miglior qualità del pesce e che marchiava con un timbro recante il suo nome le pezze di stoccafisso secco).
Lessatelo in acqua per 20-30 minuti, spegnete e lasciatelo intiepidire nella pentola. Volendo nell’acqua di bollitura si può aggiungere qualche gambo di prezzemolo e sedano. Estraetelo dall’acqua e con infinita pazienza (è un lavoro noioso!) togliete la pelle, le spine e ogni altra impurità, “sfogliando” anche la polpa e mettendola in una ciotola.
A questo punto ci sono due scuole di pensiero: i puristi procedono a montare il bacalà con un cucchiaio di legno aggiungendo a filo dell’olio come si fa per una maionese, altri usano un mortaietto, sempre a mano, o una zangola (per intenderci quella di legno per fare il burro dalla panna), io consiglio invece, per chi la possiede, di usare una planetaria con la foglia. Non usate però un frullatore a lame, in quanto il risultato sarebbe poi completamente diverso perché la montata perderebbe la tipica consistenza a piccolissimi filetti che lo caratterizza.
Se piace, passate prima la ciotola con uno spicchio d’aglio o aggiungete un po’ di aglio tritato finissimo alla fine. Azionate la planetaria aggiungendo a filo dell’olio di mais (va bene anche d’oliva, meglio se il delicato olio del Garda, perché il gusto deve leggero, altrimenti si sentirà troppo). Man mano la foglia mantecherà il bacalà e continuando ad aggiungere l’olio vedrete che si forma una massa bianca, soffice e spumosa. Di tanto in tanto si può aggiungere qualche cucchiaio d’acqua o del brodo di cottura o di latte (c’è qualcuno che fa bollire lo stoccafisso direttamente nel latte anziché nell’acqua).
Il rapporto tra olio e bacalà ammollato varia tra il 20% e il 50% del peso (partite con 300 ml di olio per un kg di pesce ammollato).
Si serve anche tiepido con qualche foglia di prezzemolo tritato ed accompagnato da fette di polenta rigorosamente bianca passate alla griglia.
Un altro suo splendido uso è aggiungerlo a cucchiate alla fine della cottura di un risotto al parmigiana: otterrete un cremosissimo risotto al bacalà.
Dovrei concludere con la regina delle ricette che è il bacalà alla vicentina, ma dato che il piatto è già presente in questo bell’articolo di Fabrizio Cioffi qui su Gastronomia mediterranea, vi segnalo solo un segreto di cottura.
L’ho carpito al proprietario della Trattoria Da Cirillo a Montegaldella (Vicenza), stupendo tempio del bacalà in ogni sua forma (per inciso oltre al risotto al bacalà, ci sono degli spaghettoni al bacalà, realizzati condendo e mantecando degli spaghettoni cotti al dente con il bacalà alla vicentina).
Il segreto per avere una perfetta e facile digeribilità del piatto è che la cottura dell’umido di stoccafisso a fuoco o in forno per almeno 5 ore dev’essere dolcissima e la temperatura non deve mai, dico mai, superare i 100° C. Ciò vale anche per il soffritto di cipolla iniziale (e per tutti i soffritti di cipolla, come indica bene Allan Bay nel suo bel testo “Cuochi si diventa”). Tutti i testi parlano infatti di far pipare il bacalà in cottura, cioè di una cottura lenta, ma nessuno ne indica la temperatura!
Per gustarlo al top, il bacalà è migliore il giorno dopo!
Buon appetito!
da vero come la gente contadina non avevvano soldini suficiente per comperare il nobile baccalà soddisfacevano con le aringhe che sono ache buono a dal potere acquisiivo molto minore e quindi accessibile alla tasca dei poveri o della classe lavoratrice meno privileggiata.!!!
Il baccalà per me crudo o cotto sempre buonissimo .mi piacerebbe sapere dove si svolgeranno eventi in onore al Daccala’