Le cialde di Montecatini e le loro sorelle

Friabili, leggere, prive di grassi aggiunti e deliziose: sono le cialde di Montecatini, una specialità che ha circa un secolo di vita ma ben più antiche parentele.

Due sfoglie sottilissime simili a wafer, fatte con latte, uova e farina e sovrapposte; nel mezzo, un composto di mandorle, rigorosamente pugliesi, e zucchero. Il tutto viene passato in una pressa che lo compatta e fa caramellare lo zucchero, dando vita a un dolce di circa venti centimetri di diametro delicato, leggero, che è compagno ideale di gelati, tè e cioccolata calda ma si fa sgranocchiare con piacere anche da solo.
La storia racconta che la cialda di Montecatini fu creata negli anni ’20 del Novecento nella bella stazione termale toscana da una famiglia di pasticcieri ebrei cecoslovacchi della quale, però, non tramanda il nome. La storia, è noto, può essere ingiusta.

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Anni ’20, dicevamo: dagli inizi del secolo, la mitica Belle Époque, Montecatini era una brillante e prospera cittadina frequentata dalla buona società, attratta dalle sue acque benefiche e dall’atmosfera elegante che vi si respirava. La nuova dolcezza ebbe subito grande successo, ma tempi oscuri si preparavano per chi fosse ebreo.
Nel 1936 la famiglia cecoslovacca decise, per la propria sicurezza, di lasciare l’Italia e cedere l’attività. Si racconta che in molti abbiano fatto delle offerte ridicole, cercando di approfittare della situazione, finché non giunse Orlando Bargilli a rilevare la pasticceria ad un prezzo adeguato. Bargilli “ereditò” così anche la ricetta originale delle cialde di Montecatini, che in seguito modificò fino a raggiungere quella definitiva ancora oggi utilizzata per la loro produzione, benché, com’è naturale, il processo di produzione si sia nel tempo modernizzato.

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Quindi chi oggi gusta piacevolmente una cialda di Montecatini sa con certezza che è relativamente giovane, avendo all’incirca un secolo di età?
Sarebbe troppo semplice. Poche cose, in cucina, si creano dal nulla, e spesso le origini di una specialità si perdono nella foschia del tempo, si confondono, si intrecciano, e non resta che fare delle ipotesi e constatare delle affinità. Coincidenze, forse. O forse no.
In territorio oggi ricadente nella Repubblica Ceca c’è una celeberrima area termale un tempo frequentata dall’élite europea, il triangolo formato da Karlovy Vary, Mariánské Lázně e Františkovy Lázně, meglio note con i nomi tedeschi (siamo nei Sudeti) di Karlsbad, Marienbad e Franzensbad.
Là si produce, da almeno un paio di secoli, un dolce che ha nome Karlovarské Oplatki, composto da cialde sottilissime sovrapposte, del diametro di 19 centimetri, variamente farcite, anche se il ripieno più classico è a base di mandorle, zucchero e vaniglia.

Foto:http://www.waffelbar.de

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Le cialde, a differenza di quelle di Montecatini, contengono burro, e a distinguerle è l’ingrediente più prezioso del luogo: l’acqua termale, tanto che una delle due cialde accoppiate reca impresso un simbolo che raffigura la sorgente benefica dalla quale sgorga. A testimonianza dell’antichità delle Karlovarské Oplatki, si conservano stampi per le cialde che risalgono al 18° secolo, e la prima citazione scritta di cui si dispone è del 1788, anche se si ritiene che a quei tempi la produzione fosse unicamente casalinga e si suppone che la prima fabbricazione a scopi commerciali sia avvenuta intorno al 1810 nella piccola panetteria dell’hotel “U zlatého štítu”. Le Karlovarské Oplatki, che furono amate da Mozart, Goethe e Schiller, hanno ottenuto nel 2011 il riconoscimento europeo di IGP (Indicazione Geografica Protetta) anche per tutelarle da dolci analoghi prodotti in Germania e in Austria, le Carlsbad Oblaten: non dimentichiamo che il territorio dei Sudeti era, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, largamente popolato da Tedeschi. E infatti a produrre le oblaten in Germania c’è, tra le più note, la ditta bavarese Wetzel, fondata da Marlene Wetzel-Hackspacher, tedesca dei Sudeti costretta a lasciare la Cecoslovacchia in seguito all’espulsione dei suoi connazionali dalla regione dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E dunque: stazioni termali, da una parte Karlovy Vary e dall’altra Montecatini; ambienti simili, cosmopoliti e benestanti; territorio ceco da un lato e pasticciere ceco dall’altro. Coincidenze? Forse. Difficile pensare che un dolce così simile finanche nell’aspetto non sia stato ispirato a un pasticciere proveniente dalla Boemia dal ricordo di una specialità del suo paese.
Ma non finisce qui, perché il tempo alle nostre spalle, e alle spalle della pasticceria, è lungo. E quando si parla di dolci sembra quasi inevitabile che, prima o poi, faccia la sua apparizione come protagonista della storia un convento.
Siena. Basso Medioevo. E’ in quel tempo che pare siano nati dei tipici dolci senesi che, come altri, avrebbero visto la luce in un monastero: secondo alcuni nelle cucine delle suore benedettine di Monte Cellese, oggi Montecelso, alle quali già si attribuisce l’ideazione del panpepato; secondo altri sui fornelli e nei forni delle suore carmelitane di altri conventi del territorio. I dolci, in un primo momento chiamati Nebulae, erano composti da due ostie sovrapposte accoppiate grazie a un ripieno di miele, zucchero, albumi e mandorle. In seguito rielaborate e modificate, presero comunque il nome che hanno ancora oggi: Copate. Come recita il vocabolario Treccani: “copata (o cupata) s. f. [dall’arabo qubbiaṭ «mandorlato»]. – Nome di piccoli dolci diffusi spec. a Siena, a forma di dischi sottili, fatti di un composto croccante di miele, mandorle, noci, aromatizzato con anice e chiuso fra due ostie. Dolci simili, noti con altre varianti del nome (copèta, cupèta, cubbàita, ecc.), sono in uso anche in altre regioni d’Italia.”
Mettiamo subito da parte la “pista” araba, che è soltanto etimologica, dato che qubbiat può designare qualsiasi cosa fatta con le mandorle; ma restando a Siena e in compagnia delle monache, non si può evitare di riferire che alcuni narrano che le copate venissero offerte a pellegrini e viaggiatori da suore oblate.
Oblate: cosa vi ricorda? Ma certo: oplatki, oblaten. Si renderebbe necessaria un’approfondita ricerca sull’etimologia del nome dei dolci ceco-tedeschi e sulle loro origini per approdare a qualche certezza, ma le connessioni sono affascinanti: dalla Toscana alla Boemia e ritorno tra religiose, terme e persecuzione degli ebrei.
Senza però voler lavorare troppo di fantasia, è il caso di ritornare con i piedi per terra e notare appena che “oblata” è parola di origini latine che in qualche modo si collega ai dolci cechi e tedeschi senza passare dai conventi senesi: oblata (dal lat. oblata, neutro plurale del participio passato oblatus «offerto, presentato») nella liturgia cattolica è il pane offerto per il sacrificio, quindi l’ostia non ancora consacrata, e non occorre un grande sforzo di immaginazione per accostare le oplatki a ostie, per consistenza, sottigliezza, friabilità.

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Annoto, più per curiosità che per reale connessione con l’argomento, che “oblato” (composto di ob + latus) indica in geometria una figura sferica appiattita ai poli; e anche se nel nostro caso parliamo di cerchi e non di sfere, un piccolo richiamo alla forma dei dolci di cui parliamo viene in mente senza troppa fatica.
Peccato, perché anche senza scomodare gli Arabi, che in un qualche modo finiscono per entrarci spesso, nelle nostre cucine, sarebbe intrigante vagheggiare un filo che si dipana dal 1063, anno di fondazione del Monastero di Montecelso, ad oggi e che porta dritto al doppio disco di cialda con l’interno dolce e mandorlato, fragrante e straordinariamente friabile, privo di grassi, conservanti e additivi, che il laboratorio Bargilli sforna senza interruzione dal 1936 in quel di Montecatini.

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Giovanna Esposito

2 Commenti Aggiungi un commento

  • Splendida ricostruzione storica. Sono quasi trent’anni, cioè da quando andai per la prima volta a Karlovy Vary, che mi chiedo se le cialde o ostie di cui stiamo parlando siano nate a Montecatini,e poi portate in Boemia, o viceversa. Ora mi è tutto molto più chiaro.
    Questa storia mi ricorda un po’ quella dell’acqua Mattoni, forse unica acqua in bottiglia venduta nell’allora Cecoslovacchia, con un nome decisamente italiano. Ma chi fu poi questo sig Mattoni?

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