Un turista gastronomico ante litteram

Archestrato di Gela! Chi era costui? Un ghiottone, secondo i suoi detrattori. Un uomo colto e un filosofo, a detta dei suoi estimatori. Probabilmente era l’una e l’altra cosa: ghiottone nel senso nobile di buongustaio e uomo di cultura; vissuto nel IV secolo a.C., nativo della Sicilia magnogreca, interessato a conoscere il mondo e, conoscendolo, a gustarne le delizie, giacché non di solo pensiero vive l’uomo.

La sua vasta conoscenza della gastronomia mediterranea ci viene tramandata, parzialmente, da Ateneo di Naucrati, che nel suo “I Deipnosofisti o I dotti a banchetto”, riporta 62 frammenti della sua opera “Hedypatheia”, conosciuta come “Gastronomia” o “Le delizie della vita” e con svariati altri titoli. Archestrato si inserisce in un generale progresso dell’arte culinaria nell’area greca a seguito dei contatti con l’Oriente, in particolare con la Persia, progresso che comportò maggiore attenzione per la materia, testimoniata da alcune opere precedenti o seguenti la sua Hedypatheia.
Uomo di gusti raffinati e di palato allenato, aveva viaggiato in lungo e in largo per il mondo conosciuto e deciso di raccogliere ciò che sapeva della cucina e delle sue materie prime in un poema in esametri (il verso “nobile” dell’epica classica) di genere didascalico, caratterizzato cioè dall’intento di istruire, non privo di ironia e di arguzia.
Nell’antichità, la Sicilia era nota per la sua ricca gastronomia (certe cose non cambiano) e alcune località dell’area magnogreca per essere, a detta dei più, sentine di vizi. Siracusa e Sibari, in primo luogo, tanto che “sibarita” è parola giunta fino a noi nel significato di persona dedita ai piaceri smodati. E dunque non stupisce che un autore che non si peritasse di utilizzare gli alti esametri per un tema apparentemente futile e godereccio finisse per essere oggetto di spregio e maldicenze. In realtà Archestrato pare fosse principalmente un erudito, come ogni erudito dell’epoca incline a viaggiare per ampliare i propri orizzonti. Che questi orizzonti contemplassero anche il cibo è cosa che oggi non ci meraviglia.
Archestrato sapeva di pane e di vini, di carni e di verdure, ma il suo interesse era concentrato sul pesce, elemento primario dell’alimentazione della Grecia classica ed ellenistica, consumato in incredibile varietà comprendente squali e murene.

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Due sono le particolarità che emergono dai frammenti della sua opera che ci sono pervenuti: la struttura quasi da guida gastronomica del suo poema, prima di tutto. Archestrato nomina decine di pesci, pani, ingredienti specificando in quale parte del mondo è possibile trovare i migliori e dove è preferibile non acquistarli né assaggiarli. Cefali a Mileto, cicale nello stretto di Scilla, polpi a Thasos e Corcira, ostriche ad Abydos, pettini di mare a Mitilene, sogliole nel Ponto; da bollire, da salare, da condire con olio e con qualche erba aromatica o, come nel caso dell’amias (forse lo sgombro?) da avvolgere in foglie di fico e cuocere sotto la cenere. Un nemico del chilometro zero, potremmo dire; o forse il contrario, perché in realtà invita a procurarsi il meglio in ogni luogo in cui ci si trova. E un grande fan della stagionalità: i suoi versi abbondano di riferimenti a periodi dell’anno e fasi astrali in cui le materie raggiungono l’apice della loro qualità.
La seconda singolare caratteristica dell’opera di Archestrato è la sua preferenza per una cucina che privilegi cotture semplici e uso di pochi condimenti e aromi, in modo da esaltare il gusto naturale dei cibi. Una concezione moderna che si oppone alle abitudini dei suoi conterranei siciliani, da lui criticati per la tendenza a sovraccaricare le pietanze, soprattutto di pesce, con formaggi, salse e intingoli:

Ma non ti assista mentre gli apparecchi
Di Siracusa o dell’Italia alcuno,
Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
E di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo.* (NdR: il silfio era una pianta aromatica ormai scomparsa).

Nelle ricette, che a dire il vero sono più generiche indicazioni di preparazione, Archestrato utilizza a sua volta l’aceto e il formaggio per il pesce, ma solo quando il pesce in questione è di carni coriacee e poco delicate:

T’abbi allora alla mensa un sargo arrosto
Grande quanto si può, sparso di cacio,
Caldo, ammollito dal vigor d’aceto,
Perchè sua carne di natura è tosta.
Di condirmi così ti figgi in mente
Qualunque pesce, la cui carne è dura;
Ma quel che ha carne dilicata e pingue
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi, e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in sè la virtù di bel sapore.*

Ateneo, citando Crisippo, associa Archestrato agli epicurei per il suo amore profondo per il godimento della gola, considerandolo un loro precursore e utilizzando così la definizione nel suo senso deteriore, che poco ha a che fare con il senso filosofico. Trapela dalle sue parole, in più di un passo, una malevolenza acida che forse riecheggia un’opinione ai tempi diffusa. In effetti c’è un punto nel quale la golosità di Archestrato sembra eccedere ogni ragionevolezza:

Se non si vuole a te vendere in Rodi
Il galeo volpe, ch’è assai pingue, il quale
Suole cane chiamarsi in Siracusa,
Ben anco a rischio di morire, il ruba,
Ed alla fine quel che può t’avvenga.*

Ecco. Forse incoraggiare al furto per procacciarsi un alimento particolarmente gustoso non è un atteggiamento condivisibile. Ma scommetto che qualcuno, magari di fronte a un prezioso tartufo, è stato sfiorato dalla tentazione…

*La traduzione dei frammenti è tratta da: “Gastronomia” di Archestrato – Frammenti – Tradotti da Domenico Scinà – Giuseppe Antonelli Editore – Venezia, 1842.

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Giovanna Esposito

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