Le albicocche del Vesuvio: il mito che non c’è

Non mi meraviglierei se un racconto mitologico narrasse di un dio minore, Vesuvio, che innamoratosi di una ninfa di nome Crisommola (o Crisomele) la rapì portandola nel suo regno bollente e fumoso. Probabilmente un mito siffatto si concluderebbe con lo sventurato tentativo di fuga della ninfa che, quasi raggiunta dal dio infuriato, fu trasformata da qualche dea benevola, affinché potesse sfuggirgli, in un bell’albero dai pomi dorati e profumati. Ed ecco spiegata l’origine delle albicocche del Vesuvio.

La mitologia invece non ci ha lasciato storie di passione e metamorfosi che riguardino il dorato frutto; (crisommola, il nome dialettale dell’albicocca utilizzato in Campania, viene appunto dal Greco chrysusmelon, pomo dorato) quello che sappiamo è che le pendici del Vesuvio e gli innumerevoli comuni che là sono sorti sono la terra d’elezione di un’albicocca che non ha uguali, per profumo, dolcezza, gusto. Un’albicocca, ho scritto, ma avrei dovuto dire molte albicocche, giacché decine e decine sono le cultivar che in quest’area crescono, che ne hanno fatto in passato una mecca fruttifera: se 2/3 della produzione nazionale provenivano dalla Campania, il 75% delle albicocche della Campania proveniva dall’area vesuviana. La fertilità del suolo vulcanico, la sua ricchezza di minerali e soprattutto di potassio sono il regalo del Vesuvio a questa terra; e se passione e metamorfosi non ci vengono raccontati dal mito, passione e metamorfosi, in negativo, sono oggi ciò che l’area vesuviana vive. I cambiamenti climatici, il non fare sistema e rete tra i produttori, l’assenza di incentivi e sostegno da parte delle istituzioni sono tutti elementi che mettono a rischio i migliori prodotti di questa terra che il vulcano ha benedetto e maledetto, a fasi alterne, nella storia. Poi c’è il flagello della Sharka, una malattia devastante per l’albicocco (ma anche per il ciliegio, il mandorlo, il susino) che non è possibile curare e costringe a estirpare le piante colpite, come ci racconta Vincenzo Egizio, che nel vesuviano coltiva albicocche, ma anche pomodorini del piennolo, San Marzano, papaccelle, con il metodo della lotta integrata e l’intenzione di convertirsi al biologico.

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Della profusione di varietà originarie di questa zona, dalle più precoci, che maturano a metà maggio, come l’Aurora, alla Ciccona, dalla Vitillo all’amatissima Pellecchiella, fino alle ultime, raccolte fino a luglio, come la Barracca, molte se ne trovano nelle terre di Vincenzo; persino una varietà antica pressoché scomparsa, la Setacciara, che qui si cerca di preservare. Varietà precoce, un tempo molto richiesta come ogni primizia, ha una pelle setosa e sottile che con la maturazione tende a spaccarsi, per cui, benché buonissima, non ha l’appeal necessario per i mercati, alla ricerca di frutti dall’aspetto impeccabile, uniformi per colore e pezzatura. E’ proprio la richiesta di frutti regolari e dalla bella apparenza che condanna alla scomparsa molte varietà tradizionali e incoraggia l’introduzione di nuove tipologie belle a vedersi ma dal sapore deludente. In più, si ricercano frutti che siano più resistenti e sopportino meglio gli spostamenti e la lunga esposizione sugli scaffali.
Però la magnifica Pellecchiella, tra le albicocche più gustose in circolazione, torna utile all’industria quando si tratta di produrre confetture e prodotti trasformati, dato che aggiunge dolcezza a frutti di altre varietà che di per sé ne hanno poca.

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Insomma, tra virosi come la Sharka e condizioni climatiche avverse come quelle di questo 2013, le albicocche vesuviane attraversano anni difficili e la produzione va riducendosi; il percorso per l’attribuzione del marchio IGP  europeo si è arenato da anni; gli agricoltori più responsabili fanno ciò che possono, gli altri imboccano strade più facili. Eppure si dice che chi non ha mai assaggiato un’albicocca del Vesuvio non abbia mai realmente gustato un’albicocca. E, da consumatrice affezionata, posso garantire che c’è molto di vero. Un frutto ricco di profumi e di dolcezza, dal gusto intenso, succoso, vellutato, che annuncia l’estate già alla vista, che andrebbe protetto e valorizzato nei suoi tanti biotipi e non citato solo quando conviene per farne una bandiera senza in alcun modo battersi per esso e per la sua sopravvivenza. Che, insomma, meriterebbe un mito tutto suo, ma non ce l’ha.

La ninfa Crisommola potrebbe finire per lasciare queste terre in cui felicemente prospera da secoli. E forse sarà allora che nascerà il mito, ad evocare la scomparsa di una prelibatezza e di un grande patrimonio naturale e culturale, per negligenza, incuria e anche un po’ per la nostra disattenzione di consumatori.

Vincenzo Egizio
Brusciano (Na)
Via Camillo Cucca, 295
Tel. 081 6588976 – 389 2713615

 

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Giovanna Esposito

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