Pearl S. Buck e la cucina orientale

Molti avranno nella propria biblioteca una delle numerose opere di Pearl S. Buck, probabilmente “La buona terra”, il romanzo più noto della scrittrice statunitense. Nata Pearl Comfort Sydenstricker, la Buck visse tutta la sua esistenza sotto il segno di quell’Oriente nel quale ne aveva trascorsa la maggior parte e si interessò anche della cucina di quei luoghi che aveva profondamente amato.

Ne è testimonianza un suo libro che ormai non si ristampa più: “La cucina orientale”, pubblicato nel 1972 e in Italia da Rizzoli nel 1975, ha una ricchezza, un fascino e una grazia che pochi altri volumi possono vantare.
Privo di foto, impreziosito da disegni lievi dal tratto sottile che ritraggono uccelli, insetti e fiori, quarant’anni fa, al tempo della sua apparizione, dovette spalancare le porte di un mondo.
Ma anche oggi, benché i tempi cambino, le distanze si contraggano e molto di più sappiamo della cucina indiana o cinese, possiamo dire altrettanto di quella birmana o di quella malese, ad esempio?
“La cucina orientale” mette in fila i popoli dell’Estremo Oriente raccontandone usanze e tradizioni ai fornelli, influenze e intrecci, descrivendo i piatti più rappresentativi e facendo seguire al quadro generale un piccolo repertorio di ricette per ogni paese.
Indonesia, Tailandia, Birmania, India e Pakistan, Cina, Filippine, Indocina (Cambogia, Vietnam e Laos), Corea, Malesia, Giappone: con l’inevitabile patina d’antan dovuta alle evoluzioni geopolitiche e ad alcune scelte del traduttore di allora, ci conduce a volo d’uccello nei sentieri di una cucina spesso piccante, spesso speziata, comunque varia e affascinante. E oggi che certi ingredienti sono molto più reperibili di quanto accadesse negli anni ’70, fornisce più di un’ispirazione.
Ovunque domina il riso: in Tailandia, ci racconta la Buck, “Vieni a mangiare il riso” è la formula usata per invitare l’ospite a pranzo. Ma le differenze tra una cucina orientale e l’altra sono numerose, in parte dovute agli influssi stranieri, benché numerosissime siano le affinità e le parentele.

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Delle cucine “maggiori” sappiamo molto, oggi, e non ci stupisce sentire che in India la cucina è un rito intricato e complesso radicato in costumi secolari o che in Cina si privilegiano le cotture brevi che preservano le sostanze nutritive, e per questa ragione ogni alimento viene tagliato in piccoli pezzi prima della cottura. Men che meno ci stupisce, ora che il Giappone trionfa nella ristorazione occidentale, che la cucina di quel paese sia considerata un’arte fin dal secolo XIV e che si presti estrema attenzione alla bellezza dei cibi e agli usi cerimoniali.
Più sorpresi ci lascia sapere che in Indonesia la preparazione di un piatto chiamato Telor Asin prevede che le uova d’anatra vengano salate e sepolte nel fango per un lungo periodo o che, secondo la tradizione, uno dei dolci tailandesi più amati sia stato servito a Buddha in persona: si tratta della crema di riso verde, spighe di riso raccolte ancora acerbe, zuccherate e bollite in acqua al gelsomino.
La cucina birmana, un trionfo di riso e di curries, è caratterizzata dall’uso dello nga-pi (pesce o gamberi essiccati e fermentati) che fa da base a quasi tutte le salse ed è molto forte e intenso, al punto che la Buck ritiene possa sconcertare i palati occidentali. Nelle Filippine sono molto amati i grandi banchetti, in Indocina predominano i vegetali, in Corea i piatti più popolari sono il sinsollo (con verdure, carni, pistacchi, noci, uova, tutto cotto insieme nel brodo sui carboni, direttamente in tavola) e il kimchi, un insieme di verdure, pepe, aglio, molluschi sott’aceto lasciato fermentare in acqua salata e che in inverno si prepara con il solo cavolo, con una tecnica alla quale si è rifatta Cristina Bowerman, presentandola nel suo intervento a Identità Golose.
La Malesia invece è un tale crogiolo di popoli che nella sua cucina si possono trovare le influenze più varie, e sul suo territorio piatti francesi, cinesi, indiani. Ma il piatto nazionale è il satay: spiedini di manzo o pollo marinati e grigliati con una salsa a base di peperoncini e arachidi.
Il piccolo vademecum del cibo d’oriente della Buck è innamorato e concreto nello stesso tempo, e leggerlo fa pensare a tempi ben più remoti degli anni ’70: richiama alla mente quello stupore un po’ ingenuo che un tempo dovevano dare agli occidentali sedentari i romanzi di Salgari o l’esotismo romantico del XIX secolo.
Ad emergere, oltre all’indubitabile fascino di un altrove più composito di quanto pensiamo, è comunque il senso di un’identità “moderna” (eppure antichissima) delle cucine orientali per il predominio che in esse hanno le carni bianche, il pesce, le verdure e naturalmente per l’uso delle spezie.

Pearl S. Buck – La cucina orientale – Rizzoli, 1975

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Giovanna Esposito

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